martedì 9 settembre 2008

Farmers Market



Arriva dall’America, precisamente dalla lontana California un fenomeno intelligente che sta prendendo piede anche nelle soleggiate piazze italiane. Di città o di paese, è un dettaglio poco importante, perché i farmers market, mercati contadini, riportano il consumatore a riscoprire i sapori, i profumi e i prodotti del territorio ad un consumatore sempre più frustrato da prezzi bollenti del supermercato.

La produzione dei farmers market è rinomata per la sua offerta di frutta e ortaggi coltivati in loco e venduti freschi. Il fulcro di questa politica è quello di raccogliere il frutto nel miglior momento possibile, quando la massima espressione di sapore e qualità è garantita, preservando tutti i valori nutrizionali delle produzioni fresche e garantire un breve passaggio dal campo di coltivazione alla nostra tavola.

Comprare dalla bancarella del contadino sotto casa, oltre ad essere una forma di acquisto ponderato è una vera e propria scelta di vita: difficilmente si potranno trovare fagiolini sul banco a Dicembre, o Banane importate dal Brasile, l’offerta è locale e offre una sicurezza senza precedenti. Il produttore locale, vende i suoi prodotti dandone una garanzia sulla provenienza e sulla genuinità.


Secondo alcuni dati relativi 2008, contro i 890 milioni di euro negli Stati Uniti, in Italia il giro d’affari delle attività dei mercati contadini arriverebbe a 150 milioni di euro per la vendita di vini, ortofrutta, olio, formaggi e altre specialità effettuati direttamente da 57.530 aziende agricole, con un aumento boom del 48 per cento dal 2001.

Questi numeri rendono efficacemente l’idea della portata e dell’importanza che questo fenomeno, rappresenta e potrebbe rappresentare per l’economia alimentare italiana.

Nessun fitofarmaco, nessun Ogm, potrebbe sembrare una visione idilliaca del paese delle meraviglie, ma per fortuna in questo paese delle contraddizioni alimentari, questo fenomeno è realmente presente.


Acquistando ortaggi, miele o altri prodotti dal contadino sarà possibile riscoprire in modo sano i prodotti tipici del territorio, e riscoprire sulle orme di una tradizione locale anche le ricette contadine di una volta o moderne con versioni più particolari.
Si tratta di scegliere di fare una spesa ponderata e informata, di ricercare nel proprio ambiente alcuni elementi che possono aiutarci a riscoprire il gusto vero di pomodori o mele, e di cercare un vero e proprio scambio di cultura.
In Italia i mercati contadini sono nati in Trentino Alto Adige, e ultimamente sono arrivati ad occupare tante piazze di regioni italiane quali: Emilia Romagna, Piemonte, Sicilia, Lombardia, Puglia e Toscana.


La regione Toscana, attraverso il il progetto "Filiera corta" ha messo a disposizione del territorio oltre 3 milioni di euro per avviare diverse iniziative: 16 mercati, 14 spacci con apertura quotidiana, 3 negozi nei musei e 3 accordi fra categorie per corner shop in ristoranti, alberghi e negozi della Toscana. I 13 nuovi mercati nasceranno a Firenze, Pontassieve, Empoli, Grosseto, Livorno, Prato, Volterra, San Miniato, Fivizzano, Appennino Pistoiese, Castelnuovo Berardenga e Sovicille e Sansepolcro.
La Sicilia, nelle domeniche d'eccellenza allestite a Palermo, ha fatto registrare circa 1600 rapporti commerciali tra produttori e consumatori.
La Puglia invece si contraddistingue dal 1995 con i farmer's market di Taranto e di Bari.
Queste realtà sono gestite da differenti tra cui la Coldiretti, la Cia, Amministrazioni e Slow Food (sotto il nome di Mercati della Terra).

Grazie alll'emanazione del decreto legge del ministero delle Politiche Agricole, in vigore dal 1 gennaio 2008, i mercati contadini, riservati all'esercizio della vendita diretta da parte di imprenditori agricoli, si permette lo sviluppo di circa 100 mercatini nelle città italiane entro il 2008 per arrivare, nel 2010 a 400-500 mercati attivi, per un totale di 6000-8000 imprese agricole coinvolte.

Oltre alla vendita diretta molte aziende agricole, prevedono la possibilità al consumatore di i prodotti stagionali direttamente a casa, attraverso abbonamenti semestrali o annuali che permetteranno di ricevere settimanalmente prodotti freschi di agricoltura locale. L’offerta è particolarmente interessante: ogni consumatore potrà raggiungere l’azienda agricola telefonicamente o via web, esprimere l’ordine, controllare lo stato di spedizione e aggiornarsi sulle novità del suo produttore di fiducia.
Nel pacco spedito, i prodotti stagionali saranno freschissimi e il più delle volte accompagnati da un breve ricettario, in cui sono annotati metodi di preparazione o conservazione degli articoli acquistati.

A questo proposito segnalo la Cascina del Cornale a Magliano Alfieri, in provincia di Cuneo (www.cascinacornale.it), che conta sulla collaborazione di 80 agricoltori per dare una maggior scelta di ortaggi possibile, da ordinare via web attraverso un abbonamento spesa. Il contenuto della spesa non è prestabilito ma cambia in base alle stagioni, alle disponibilità e alla scelta di diversificare, e sarà possibile comporre personalmente la spesa, in base ai gusti e alle preferenze o lasciare scegliere ai gestori della cascina cosa mettere nel pacco da spedire.

L’azienda Baronchelli, con sede nel lodigiano, (www.aziendaagricolabaronchelli.com) è un’azienda produttrice di latte crudo e altri prodotti agricoli come formaggi, salumi, carne, riso, yogurt e conserve. Sul sito sarà possibile effettuare degli ordini, consultare orari e luoghi di mercato per vendita diretta.

L’avvio dei mercati contadini ha portato diversi cambiamenti nella mentalità di acquisto ma anche di concezione della spesa, il protagonista del mercato non è più il consumatore ma il prodotto stesso, l’attenzione riposta all’oggetto di acquisto è un parametro talmente importante che ci si ricercano i luoghi di acquisto di precisi prodotti. A tal proposito vi sono innumerevoli siti in cui vengono dati consigli sui luoghi di mercato più convenienti o vere e proprie mappe: nel sito www.milkmaps.com, è possibile consultare una cartina multimediale che indica tutti i distributori automatici di latte crudo in Italia e alcuni dati sul produttore scelto.


Fare una spesa a chilometri zero, non è esclusivamente una tendenza: il cambiamento orientato in questo senso, permette un risparmio di emmissioni di CO2 e di energia senza confronto.
Se settant’anni fa i cibi percorrevano pochi chilometri, dalla produzione alla tavola, la moda dell’ultimo decennio ci ha portato a volere cavoli in Agosto e Papaya disponibili tutto l’anno. Assaporare prodotti locali, gustare frutta fresca di stagione, non salva solo il portafoglio ma diminuisce l’impatto ambientale e rappresenta in tutti sensi una scelta sostenibile.


martedì 24 giugno 2008

Riflessioni sull'olio di oliva in Umbria...e non solo.

La parte didattica dello stage in Umbria, è stata incentrata sul valore alimentare dell'olio e sulla sua identità.
Dagli studi fatti Centro di Ricerca per l'Olivicoltura di Spoleto, ne è emerso che la qualità del prodotto viene determinata da diversi fattori: da aspetti merceologici, nutrizionali, salutistici, sensoriali (composti fenolici, volatili e pigmenti).
La composizione acidica dell'olio di acidi grassi e antiossidanti dev'essere un equilibrio tra le componenti di acidi grassi saturi, insaturi e polinsaturi.
I polifenoli presenti nel frutto rendono il frutto immangiabile perchè amaro ma sono antiossidanti e preservano quelle sostanze nutritive essenziali per l'organismo.
La Shelf life, ossia la durabilità del prodotto, è garantita anche dall’azione di questi antiossidanti che prevengono l'ossid
azione del prodotto, evitando che il esso perda tutte le caratteristiche organolettiche e nutrizionali presenti, e a prevenire la formazione di composti cancerogeni. I composti antiossidanti "preservano" inoltre l'organismo da eventuali problemi cardiovascolari, e mantengono le qualità sensoriali amare e pungenti tipiche di un olio giovane e di qualità.

Avendo avuto diverse occasioni di parlare con alcuni produttori ed esperti in questo campo, credo sia importante soffermarsi sul valore edonistico dell'olio. Molti spazi dedicati ai consumatori premono sul fatto che per avere una dieta sana e mantenere intatte tutte le qualità
Non si tratta esclusivamente di un prodotto salutare ma anche di un alimen
to che da soddisfazione al palato, quindi non avrebbe senso apportare tutti i valori nutrizionali di esso tramite altri mezzi.
Questo problema nasce dal fatto che in alcuni paesi come l’Australia o gli Stati uniti, sono state messe in commercio delle pillole sotto nomenclatura “olive oil pills”, e vengono consumate da consumatori convinti che quest’ultime possano essere un valido integratore o nella migliore delle ipotesi surrogato per assumere in modo più “salutare” caratteristiche positive dell’olio d’oliva. La prospettiva è poco incoraggiante: innumerevoli siti sul web riportano articoli, ricerche e promozioni pubblicitarie, sottolineando i benefici dell’olio d’oliva, ma proponendo un prodotto che poco lo ricorda, apostrofando la nuova soluzione con frasi ingannevoli come “Pill 'shows great promise” o promettendo insperati risultati dimagranti o curativi con l’assunzione di queste pillole all’olio d’oliva.
Secondo l’opinione pubblica, parlare di olio considerandolo un prodotto dietetico sarebbe forse eccessivo, ma forse bisognerebbe ragionare di più sul vero significato della parola “dietetico”. Un’accezione senz’altro moderna e ponderata del termine, potrebbe por
re il termine in riferimento alla dieta -intesa come insieme delle abitudini alimentari quotidiane- ed essendo l’olio un elemento fondamentale nella triade mediterranea, non mi sento di catalogarlo fuori dalla categoria “prodotto dietetico”. Nonostante questo alimento sia un grasso, non si può prescindere da tutti i benefici che può arrecare all’organismo se consumato in maniera equilibrata.

La tipicità è un aspetto molto importante per l'olio perchè gli aspetti agronomici e tecnologici di produzione, rendono il prodotto più affidabile, differenziabile da altri appartenenti ad una stessa categoria merceologica.
Le sigle DOP e IGP sono emanate dalla Comunità Economica Europea e danno informazioni sull'origine del prodotto, sulle sue caratteristiche esclusivamente, e indicazioni di una lavorazione in un'aerea limitata. In Umbria, le realtà DOP rappresentano solamente il 4,4% della produzione di olio extravergine d'oliva locale e riportano il nome della regione, accompagnata dalla specificazione delle varie menzioni geografiche.
Il Centro di Ricerca Agronomica
sull'olivicultura (CRA), effettua ricerche sulla possibilità di migliorare le tecniche agronomiche al fine di aumentare la qualità del prodotto finale. Fino ad oggi sono stati "creati" 21 nuovi genotipi di acidi grassi e 16 nuovi genotipi di fenoli. Il punto saldo dell'istituto sperimentale di olivicoltura è quello di incentrare la propria filosofia sull'importanza della territorialità avarietale, e sulla condivisione con il "consumatore" delle esperienze.
positive dell'olio si dovrebbe diminuire l'impiego di olio in cottura o per lo meno a temperature elevate, e aumentare quello a crudo. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, i consigli d’uso non sono sufficienti a sensibilizzare un consumo o un’alimentazione responsabile.

giovedì 17 gennaio 2008

Ottavia nel paese delle meraviglie...Friuli




La “tradizione” concepita in quanto somma delle innovazioni che nel tempo si sono rivelate sane e buone, è senza dubbio applicabile a tutti quei prodotti alla base della dieta famigliare di una volta e di oggi. 

L’abitudine alimentare di una popolazione, come cibo quotidiano o delle feste, è senz’altro una buona base per poter tracciare le caratteristiche di un profilo gastronomico tradizionale. Nel corso del tempo i prodotti tipici, variano di qualità della materia prima, dei metodi diconservazione, ma ne rimane invariato il principio di valorizzazione del prodotto. All’interno di una gastronomia così variegata ritroviamo distillati, bevande alcoliche, carni fresche e trasformate, formaggi, preparazioni di pesce e crostacei, prodotti di panetteria e confetteria. 

In una presentazione corretta di tutti i beni agroalimentari di una regione, tali prodotti considerati dovrebbero riflettere la cultura gastronomica del paese e la loro diffusione sul territorio. I “prodotti simbolo” fanno parte di tutte quelle preparazioni culinarie che per lungo tempo hanno costituito la base dell’alimentazione popolare delletrattorie e delle osterie di una volta.

Tra queste possiamo annoverare il Musetto, la Brovada, il Frico, i Cjarsons, la ricotta affumicata, la Gubana, le preparazioni a base di carni d’oca, e i prosciutti. Tra questi prodotti la tradizionalità è legata alle materie prime, alle dosi di queste, alle relative preparazioni. Il Frico ad esempio era un alimento presente in tutte le case della zona della Carnia, ma oggi viene preparato per occasionispeciali: si tratta di un aperitivo caldo e stuzzicante, una cialda friabile o morbida a basedi formaggio, patate ed in stagione anche di zucca. 

Cjarsons erano una sorta di agnolotti con ripieno di ricotta ed altri ingredienti molto particolari che ricordano la tradizione delle festività della Carnia di una volta.La tradizione li vede come un tipico piatto di magro, quindi senza la presenza di carne nella preparazione, ma molto vari a seconda della zona per ingredienti e sapore. Si possono trovare in versione dolce, salata o agre: oggi quelli tradizionali alla base del piatto classico di Pasqua sono ripieni di ricotta, cacao, uvetta, spinaci, formaggio, uova, e conditi con burro fuso, cannella e ricotta affumicata.

Le zone collinari e montuose offrono prodotti celebri dal Picolit al prosciutto di San Daniele. La zona della Carnia, annovera prodotti di montagna come il Montasio, il prosciutto affumicato di Sauris e piatti a base di selvaggina aromatizzati con spezie, pietanze tipiche della zona d’oltralpe.

Questi preparazioni classiche vengono spesso accompagnate da vini locali, molto freschi ed estivi realizzati con i principali vitigni autoctoni che sono Tocai (ora detto Friulano), Merlot, Cabernet, Sauvignon e Veruzzo, possibilmente di alcuni produttori locali affermati come Felluga, Jermann o Zidarich. Per concludere il pasto, un digestivo Nonino, prodotto friulano per eccellenza.

In questo spazio vorrei riuscire a descrivere o presentare alcune delle produzioni che ho avuto modo di scoprire personalmente sul territorio. La cosa che più mi ha colpita del Friuli, è proprio questa propensione che hanno i produttori alla formazione dell’ipotetico cliente. Persino ad un viaggiatore occasionale, trovatosi sul territorio non verrà mai negata una visita o una “sbirciatina” alla produzione artigianale dei prodotti tipici.  L’uomo italiano, a differenza di quello spagnolo piuttosto che tedesco, nonostante sia più legato ad una tradizione culinaria…non è disposto a pagare una certa somma per il prodotto di qualità. Questa propensione del portafoglio oltre all’innegabile differenza di entrate monetarie, è dovuto alla scarsità di informazione che il cliente riesce a captare sul prodotto che ogni giorno si trova in tavola o nella gastronomia sotto casa. Bisognerebbe rendere il consumatore più consapevole e più curioso su quello che mangia, in questo modo sicuramente egli sarebbe più propenso ad investire il proprio budget per un qualcosa di diverso. 

Illudendomi che queste pagine possano aiutare, anche in minima parte, a scoprire le tappe interessanti del mio sentiero friulano del gusto, ecco qualche prodotto interessante.

La salsa balsamica

 

Questo prodotto si distingue dal “comune” aceto balsamico per prezzo, destinatario e consistenza: essa è molto più densa di un normale aceto balsamico di Modena. 

In seguito alla pigiatura di uva bianca, le bucce vengono rimosse ed il mosto viene cotto ad una temperatura inferiore agli ottanta gradi, in recipienti d’acciaio posti direttamente sulla fonte di calore. Attraverso questo primo passaggio di cottura che dura circa cinquanta ore, la massa liquida si riduce per il 70%. Il resto del lavoro lo compie il tempo in collaborazione con le botticelle di dimensione decrescente, che permettono alla salsa di invecchiare in un ambiente riparato e caldo. Il processo d’invecchiamento dura oltre dieci anni nei fusti di legno, le essenze sono a discrezione del produttore, ma generalmente si tratta di rovere, frassino, ciliegio, robinia, gelso, ciliegio e ginepro. Per ogni anno trascorso viene effettuato un rabbocco di salsa madre, affinché il contenuto delle botti non si concentri troppo ed il tasso tannico venga perso.

La Pitina (Presidio Slow Food)

La tradizione della Pitina è nata molti anni fa, per la semplice esigenza delle popolazioni di montagna di conservare la carne. Dopo il periodo di caccia, le donne si trovavano a dover far sparire la carne cacciata di frodo e a trovare il modo per conservarla. La carne (di capra o selvaggina, a seconda dei frutti che la caccia aveva portato) veniva messa in un budello o in una rete con del sale e dei pochi aromi che di cui la cucina disponeva e poi appese al camino per farle seccare e affumicare. Questa pratica poteva avvenire con qualsiasi tipo di carne e talvolta venivano anche fatti dei bland di carni diverse.

Venne riconosciuto come presidio Slow Food nel 2000 perché si stava perdendo questa tradizione e perché era rimasto solamente un produttore che preparava queste Pitine in occasioni speciali.

La carne impiegata oggi è quella di ovini vecchi dei quali sono impiegate le parti più magre, questo permette un’essiccatura più veloce ed una stagionatura ottimale. Dal corpo dell’animale che arriva in bottega, devono essere rimossi il grasso e tutte le interiora per evitare la presenza di microrganismi indesiderati. La carne dunque viene macinata ed integrata con pancetta di maiale per affinare il gusto. All’impasto di carne devono essere aggiunti gli aromi come bacche di ginepro, pepe nero, aglio di Resia, vino, Achillea Moschata e ovviamente del sale. Le polpette ottenute vengono impanate nella farina di mais ed affumicate con legno di faggio. L’asciugatura della Pitina dura circa dieci giorni, ma può essere lasciata a discrezione del produttore che può decidere di vendere un prodotto mediamente fresco o stagionato. Dopo questo periodo viene lavata per rimuovere eventuali muffe formatisi, quindi messa sotto vuoto.

 

Il Montasio

 

Il formaggio Montasio deve il suo nome all’altipiano delle Alpi Giulie, le sue origini ci portano al Medioevo e alla tradizione monacale dell’Abbazia San Gallo. Oggi la zona di produzione include il Friuli Venezia Giulia e le zone venete tra il Piave ed il Brenta. Come ogni formaggio a denominazione DOP, il prodotto deve rispettare il disciplinare che impone l’utilizzo di latte vaccino per ottenere un formaggio a pasta cotta semidura, di peso compreso tra i 5 ed i 9 Kg, che presenta un’occhiatura piccola ed omogenea. Secondo il regolamento del Consorzio di tutela del Montasio, il latte impiegato per la produzione deve provenire esclusivamente da allevamenti situati nella zona d’origine.

A seconda del periodo di stagionatura sul mercato sono presenti prodotti molto diversi tra loro: il più fresco viene stagionato dai due ai cinque mesi, il mezzano da cinque mesi ad un anno, il più stagionato oltre un anno.

 Durante la visita alla balsameria ho avuto l’occasione di degustare un Montasio invecchiato tre anni, sebbene la struttura del formaggio nelle versioni meno stagionate sia molto delicata, nella forma che abbiamo assaggiato il gusto era molto deciso e leggermente piccante, di consistenza friabile, molto simile a quella del Parmigiano Reggiano.

Per consentire al patrimonio enzimatico di conservarsi il latte che arriva al caseificio subisce un leggero trattamento termico. La cagliata viene ottenuta con caglio bovino, ed una volta cotta, viene messa in fascere che permettono al formaggio di essere marchiato, e pressato per eliminare il siero in eccesso. La fase finale prima della stagionatura è la salatura della forma che può avvenire per immersione in salamoia o con massaggi al sale marino.

 Fois Gras

La tradizione norcina è profondamente radicata nel territorio friulano grazie alla presenza di un’azienda di dimensioni modeste che si occupa della trasformazione di carni d’oca: Jolanda de Colò.

L’azienda venne fondata nel 1976 quando Jolanda de Colò decise di mettere a frutto le sue conoscenze sull’allevamento e la trasformazione dell’oca, per creare una struttura specializzata nella lavorazione di fegato d’oca. 

Bruno Pessot, il produttore, si occupa personalmente della selezione dei prodotti: grazie alla sua intraprendenza è nata la collaborazione con il Rabbino Capo della comunità friulana, che ha permesso la produzione di salami secondo la tradizione Kasher. Il salame d’oca era già prodotto nel ghetto ebreo a Venezia nel XV secolo: allora come oggi, animali “puri” venivano macellati con un coltello quadrato, la cui carne veniva insaccata nella pelle del collo dell’animale stesso.

La carne d’oca, nella cultura gastronomica d’oggi potrebbe sembrare un prodotto di nicchia ma in realtà nella storia dell’attività agricola dell’uomo, l’allevamento di questo animale risale sin dai tempi romani. Probabilmente la presenza delle attività romane, testimoniata dai resti del porto di Aquileia, spiega come mai questa tradizione sia così insita nella cultura gastronomica friulana. Dalle notizie che abbiamo oggi, da sempre nella pianura friulana, l’oca venne allevata per la sua carne, per il fegato, per il grasso e per le piume.

Tra i prodotti che vorrei ricordare c’è lo speck d’oca, differente da quello di suino per consistenza e gusto: esso presenta una netta distinzione tra la parte grassa e quella magra ed ha una scioglievolezza in bocca che non ha paragoni c

on insaccati simili. L’Italia, sin dall’epoca romana si occupa di fegato grasso d’oca, ma nel periodo medievale sembra che il gusto abbia una variazione che non prevede più questo particolare alimento-vizio, soltanto più tardi in Francia questo prodotto d’élite inizierà adavere molto successo.

Da Jolanda de Colò le oche provengono da piccoli allevamenti ungheresi e se nutrite correttamente possono avere un fegato di un chilogrammo, ma l’azienda fa una selezione di pesi in base alla taglia dell’animale in questione.

(Tutte le unità sono divise in tre categorie: la qualità extra è tra i 600 e gli 800 grammi; la seconda scelta ha una pezzatura superiore agli 800 grammi, oppure tra i 500 e i 600 grammi; la terza invece comprende fegati di circa 300 grammi.)

In Italia viene anche trasformato il fegato grasso d’anatra che però Jolanda de Colò non tratta, perché presenta un gusto meno delicato rispetto a quello d’oca bensì deciso, quasi speziato. Si presenta alla vista di un colore tendente al rosa, diversamente da quello d’oca che appare giallo chiaro e più simmetrico rispetto a quello d’anatra che presenta un lobo molto più grande dell’altro.

 

Il modo migliore e semplice per gustare a pieno le caratteristiche qualitative, è far saltare in padella con del burro una fetta di fegato grasso leggermente infarinato, salando eventualmente a doratura completata. Un buon abbinamento che rende il piatto ancora più sfizioso e fresco è accompagnare il foi gras dorato con una gelatina di Verduzzo.

Spero di essere stata abbastanza esaustiva...proseguirò a breve il mio racconto sui prodotti friulani di punta: il prosciutto San Daniele, la grappa Nonino e il vino naturalmente. 

A presto, 

O.

martedì 15 gennaio 2008

Pasticceria torinese...il gianduiotto

Il corso formativo della mia università prevede stage in cui è possibile, per noi futuri gastronomi, andare a toccare con mano la realtà produttiva che studiamo. E' forse questo uno dei maggiori pregi dell'Università di Scienze Gastronomiche. 

Mi piace pensare di poter prendere, anche solo per un momento, le parti di Mario Soldati e andare a vedere la realtà che più mi a
ffascina di Torino...la pasticceria artigianale. 


Torino. Alla conclusione delle guerre napoleoniche, la piccola città era capoluogo del Regno dei Savoia ma non costituiva ancora il simbolo dell’attività frenetica commerciale e industriale del Nord Italia.

Tutto ebbe inizio quando Pier Paul Caffarel, decise di trasformare un vecchio stabile di una conceria, in una piccola fabbrica di cioccolato. Sin dagli albori del 1600 la città era considerata la capitale del cioccolato, ma mai nessun laboratorio ne riuscì a produrne tali quantità in così poco tempo. 

L’autentica storia del primo Gianduiotto ebbe inizio nel 1852, anno in cui dalla oramai affermata casa di produzione, fu presentato al pubblico un nuovo tipo di cioccolato: una ricetta innovativa ottenuta dall’impasto di cacao, zucchero e nocciole “Tonde Gentili” della vicina zona delle Langhe. Sfruttando l’aromaticità della pasta cremosa, Caffarel studiò nel 1865 un prodotto speciale chiamato “givu”, un cioccolatino dalla forma triangolare

  che prendeva il nome dalla tradizione piemontese.  Il nome venne ben presto sostituito con quello di “Gianduiotto”, che deriva da Gian d’la duja, nome della nota maschera piemontese, simbolo della lotta per l’indipendenza del 1799.

In realtà l’idea di inserire nell’impasto la nocciola fu solo la conseguenza di una necessità pratica: durante i conflitti napoleonici, i cioccolatieri torinesi in difficoltà nel trovare abbastanza cacao, pensarono di mescolare al cacao le nocciole finemente tritate. Attraverso quest’espediente vennero a meno tutti i problemi dei costi di tra

sporto, e nacquero così i più importanti laboratori specializzati in prodotti a base di gianduia.

Agli inizi della meccanizzazione, le varie fasi erano ad alta manodopera: la massa del cioccolato veniva impastata a mano, lavorata con una coltella grande rettangolare e con una di minore dimensione, fino ad ottenere la consistenza desiderata. Raggiunta una fluidità ottimale, gli artigiani ciocolatè scodellavano il cioccolatino nella tipica forma triangolare. La tecnica dell’estrusione venne raggiunta in un secondo momento, attraverso il taglio netto della pasta di gianduia da parte del “gianduiere”, seguita da un breve periodo di riposo e dall’incarto rigorosamente manuale.

Durante lo stage ho avuto modo di visitare diversi laboratori artigianali ma quello che mi ha entuasiasmata di più è stato quello di Guido Gobino: figura carismatica e storica del cioccolato di qualità. 

Credo che Guido sia così tanto conosciuto, proprio perchè lavora mantenendo sempre come parametro di riferimento, i  prodotti di punta della tradizione torinese come il Gianduiotto e il cioccolato con nocciole. 

Dalla sua creatività, nasce l’idea di creare il Laboratorio Artigianale del Gianduiotto, un luogo in cui si possa realizzare qualcosa di nuovo attraverso le tecniche tradizionali. Dalla linea classica di produzione, nascono prodotti innovativi, realizzati con materie prime di altissima qualità quali il Giandujottino Tourinot e gli Amarissimi.  

L’impiego di materie prime certificate, lo studio e l’investimento in controlli di qualità efficienti (Guido è uno dei pochi artigiani che ha un laboratorio dedito all'analisi chimica all'interno della struttura), e la debita certificazione del Tourinot Maximo, garantisce al consumatore un alto livello di acquisto.

Nella linea di produzione di questa rivisitazione del prodotto classico, vengono impiegati oltre alla Nocciola Gentile del Piemonte, burro di cacao di prima qualità e cinque diversi tipi di cacao miscelati per dare la giusta aroma e consistenza: Ghana, Java, Venezuela, Arriba e Trinidad.

Credo che questa realtà valga la pena della visita, per la vastissima gamma di prodotti ma soprattutto per la filosofia che sta dietro al sistema. 

Vi lascio i debiti riferimenti: 

http://www.guidogobino.it/e_index.htm

A presto, 

Ottavia