giovedì 17 gennaio 2008

Ottavia nel paese delle meraviglie...Friuli




La “tradizione” concepita in quanto somma delle innovazioni che nel tempo si sono rivelate sane e buone, è senza dubbio applicabile a tutti quei prodotti alla base della dieta famigliare di una volta e di oggi. 

L’abitudine alimentare di una popolazione, come cibo quotidiano o delle feste, è senz’altro una buona base per poter tracciare le caratteristiche di un profilo gastronomico tradizionale. Nel corso del tempo i prodotti tipici, variano di qualità della materia prima, dei metodi diconservazione, ma ne rimane invariato il principio di valorizzazione del prodotto. All’interno di una gastronomia così variegata ritroviamo distillati, bevande alcoliche, carni fresche e trasformate, formaggi, preparazioni di pesce e crostacei, prodotti di panetteria e confetteria. 

In una presentazione corretta di tutti i beni agroalimentari di una regione, tali prodotti considerati dovrebbero riflettere la cultura gastronomica del paese e la loro diffusione sul territorio. I “prodotti simbolo” fanno parte di tutte quelle preparazioni culinarie che per lungo tempo hanno costituito la base dell’alimentazione popolare delletrattorie e delle osterie di una volta.

Tra queste possiamo annoverare il Musetto, la Brovada, il Frico, i Cjarsons, la ricotta affumicata, la Gubana, le preparazioni a base di carni d’oca, e i prosciutti. Tra questi prodotti la tradizionalità è legata alle materie prime, alle dosi di queste, alle relative preparazioni. Il Frico ad esempio era un alimento presente in tutte le case della zona della Carnia, ma oggi viene preparato per occasionispeciali: si tratta di un aperitivo caldo e stuzzicante, una cialda friabile o morbida a basedi formaggio, patate ed in stagione anche di zucca. 

Cjarsons erano una sorta di agnolotti con ripieno di ricotta ed altri ingredienti molto particolari che ricordano la tradizione delle festività della Carnia di una volta.La tradizione li vede come un tipico piatto di magro, quindi senza la presenza di carne nella preparazione, ma molto vari a seconda della zona per ingredienti e sapore. Si possono trovare in versione dolce, salata o agre: oggi quelli tradizionali alla base del piatto classico di Pasqua sono ripieni di ricotta, cacao, uvetta, spinaci, formaggio, uova, e conditi con burro fuso, cannella e ricotta affumicata.

Le zone collinari e montuose offrono prodotti celebri dal Picolit al prosciutto di San Daniele. La zona della Carnia, annovera prodotti di montagna come il Montasio, il prosciutto affumicato di Sauris e piatti a base di selvaggina aromatizzati con spezie, pietanze tipiche della zona d’oltralpe.

Questi preparazioni classiche vengono spesso accompagnate da vini locali, molto freschi ed estivi realizzati con i principali vitigni autoctoni che sono Tocai (ora detto Friulano), Merlot, Cabernet, Sauvignon e Veruzzo, possibilmente di alcuni produttori locali affermati come Felluga, Jermann o Zidarich. Per concludere il pasto, un digestivo Nonino, prodotto friulano per eccellenza.

In questo spazio vorrei riuscire a descrivere o presentare alcune delle produzioni che ho avuto modo di scoprire personalmente sul territorio. La cosa che più mi ha colpita del Friuli, è proprio questa propensione che hanno i produttori alla formazione dell’ipotetico cliente. Persino ad un viaggiatore occasionale, trovatosi sul territorio non verrà mai negata una visita o una “sbirciatina” alla produzione artigianale dei prodotti tipici.  L’uomo italiano, a differenza di quello spagnolo piuttosto che tedesco, nonostante sia più legato ad una tradizione culinaria…non è disposto a pagare una certa somma per il prodotto di qualità. Questa propensione del portafoglio oltre all’innegabile differenza di entrate monetarie, è dovuto alla scarsità di informazione che il cliente riesce a captare sul prodotto che ogni giorno si trova in tavola o nella gastronomia sotto casa. Bisognerebbe rendere il consumatore più consapevole e più curioso su quello che mangia, in questo modo sicuramente egli sarebbe più propenso ad investire il proprio budget per un qualcosa di diverso. 

Illudendomi che queste pagine possano aiutare, anche in minima parte, a scoprire le tappe interessanti del mio sentiero friulano del gusto, ecco qualche prodotto interessante.

La salsa balsamica

 

Questo prodotto si distingue dal “comune” aceto balsamico per prezzo, destinatario e consistenza: essa è molto più densa di un normale aceto balsamico di Modena. 

In seguito alla pigiatura di uva bianca, le bucce vengono rimosse ed il mosto viene cotto ad una temperatura inferiore agli ottanta gradi, in recipienti d’acciaio posti direttamente sulla fonte di calore. Attraverso questo primo passaggio di cottura che dura circa cinquanta ore, la massa liquida si riduce per il 70%. Il resto del lavoro lo compie il tempo in collaborazione con le botticelle di dimensione decrescente, che permettono alla salsa di invecchiare in un ambiente riparato e caldo. Il processo d’invecchiamento dura oltre dieci anni nei fusti di legno, le essenze sono a discrezione del produttore, ma generalmente si tratta di rovere, frassino, ciliegio, robinia, gelso, ciliegio e ginepro. Per ogni anno trascorso viene effettuato un rabbocco di salsa madre, affinché il contenuto delle botti non si concentri troppo ed il tasso tannico venga perso.

La Pitina (Presidio Slow Food)

La tradizione della Pitina è nata molti anni fa, per la semplice esigenza delle popolazioni di montagna di conservare la carne. Dopo il periodo di caccia, le donne si trovavano a dover far sparire la carne cacciata di frodo e a trovare il modo per conservarla. La carne (di capra o selvaggina, a seconda dei frutti che la caccia aveva portato) veniva messa in un budello o in una rete con del sale e dei pochi aromi che di cui la cucina disponeva e poi appese al camino per farle seccare e affumicare. Questa pratica poteva avvenire con qualsiasi tipo di carne e talvolta venivano anche fatti dei bland di carni diverse.

Venne riconosciuto come presidio Slow Food nel 2000 perché si stava perdendo questa tradizione e perché era rimasto solamente un produttore che preparava queste Pitine in occasioni speciali.

La carne impiegata oggi è quella di ovini vecchi dei quali sono impiegate le parti più magre, questo permette un’essiccatura più veloce ed una stagionatura ottimale. Dal corpo dell’animale che arriva in bottega, devono essere rimossi il grasso e tutte le interiora per evitare la presenza di microrganismi indesiderati. La carne dunque viene macinata ed integrata con pancetta di maiale per affinare il gusto. All’impasto di carne devono essere aggiunti gli aromi come bacche di ginepro, pepe nero, aglio di Resia, vino, Achillea Moschata e ovviamente del sale. Le polpette ottenute vengono impanate nella farina di mais ed affumicate con legno di faggio. L’asciugatura della Pitina dura circa dieci giorni, ma può essere lasciata a discrezione del produttore che può decidere di vendere un prodotto mediamente fresco o stagionato. Dopo questo periodo viene lavata per rimuovere eventuali muffe formatisi, quindi messa sotto vuoto.

 

Il Montasio

 

Il formaggio Montasio deve il suo nome all’altipiano delle Alpi Giulie, le sue origini ci portano al Medioevo e alla tradizione monacale dell’Abbazia San Gallo. Oggi la zona di produzione include il Friuli Venezia Giulia e le zone venete tra il Piave ed il Brenta. Come ogni formaggio a denominazione DOP, il prodotto deve rispettare il disciplinare che impone l’utilizzo di latte vaccino per ottenere un formaggio a pasta cotta semidura, di peso compreso tra i 5 ed i 9 Kg, che presenta un’occhiatura piccola ed omogenea. Secondo il regolamento del Consorzio di tutela del Montasio, il latte impiegato per la produzione deve provenire esclusivamente da allevamenti situati nella zona d’origine.

A seconda del periodo di stagionatura sul mercato sono presenti prodotti molto diversi tra loro: il più fresco viene stagionato dai due ai cinque mesi, il mezzano da cinque mesi ad un anno, il più stagionato oltre un anno.

 Durante la visita alla balsameria ho avuto l’occasione di degustare un Montasio invecchiato tre anni, sebbene la struttura del formaggio nelle versioni meno stagionate sia molto delicata, nella forma che abbiamo assaggiato il gusto era molto deciso e leggermente piccante, di consistenza friabile, molto simile a quella del Parmigiano Reggiano.

Per consentire al patrimonio enzimatico di conservarsi il latte che arriva al caseificio subisce un leggero trattamento termico. La cagliata viene ottenuta con caglio bovino, ed una volta cotta, viene messa in fascere che permettono al formaggio di essere marchiato, e pressato per eliminare il siero in eccesso. La fase finale prima della stagionatura è la salatura della forma che può avvenire per immersione in salamoia o con massaggi al sale marino.

 Fois Gras

La tradizione norcina è profondamente radicata nel territorio friulano grazie alla presenza di un’azienda di dimensioni modeste che si occupa della trasformazione di carni d’oca: Jolanda de Colò.

L’azienda venne fondata nel 1976 quando Jolanda de Colò decise di mettere a frutto le sue conoscenze sull’allevamento e la trasformazione dell’oca, per creare una struttura specializzata nella lavorazione di fegato d’oca. 

Bruno Pessot, il produttore, si occupa personalmente della selezione dei prodotti: grazie alla sua intraprendenza è nata la collaborazione con il Rabbino Capo della comunità friulana, che ha permesso la produzione di salami secondo la tradizione Kasher. Il salame d’oca era già prodotto nel ghetto ebreo a Venezia nel XV secolo: allora come oggi, animali “puri” venivano macellati con un coltello quadrato, la cui carne veniva insaccata nella pelle del collo dell’animale stesso.

La carne d’oca, nella cultura gastronomica d’oggi potrebbe sembrare un prodotto di nicchia ma in realtà nella storia dell’attività agricola dell’uomo, l’allevamento di questo animale risale sin dai tempi romani. Probabilmente la presenza delle attività romane, testimoniata dai resti del porto di Aquileia, spiega come mai questa tradizione sia così insita nella cultura gastronomica friulana. Dalle notizie che abbiamo oggi, da sempre nella pianura friulana, l’oca venne allevata per la sua carne, per il fegato, per il grasso e per le piume.

Tra i prodotti che vorrei ricordare c’è lo speck d’oca, differente da quello di suino per consistenza e gusto: esso presenta una netta distinzione tra la parte grassa e quella magra ed ha una scioglievolezza in bocca che non ha paragoni c

on insaccati simili. L’Italia, sin dall’epoca romana si occupa di fegato grasso d’oca, ma nel periodo medievale sembra che il gusto abbia una variazione che non prevede più questo particolare alimento-vizio, soltanto più tardi in Francia questo prodotto d’élite inizierà adavere molto successo.

Da Jolanda de Colò le oche provengono da piccoli allevamenti ungheresi e se nutrite correttamente possono avere un fegato di un chilogrammo, ma l’azienda fa una selezione di pesi in base alla taglia dell’animale in questione.

(Tutte le unità sono divise in tre categorie: la qualità extra è tra i 600 e gli 800 grammi; la seconda scelta ha una pezzatura superiore agli 800 grammi, oppure tra i 500 e i 600 grammi; la terza invece comprende fegati di circa 300 grammi.)

In Italia viene anche trasformato il fegato grasso d’anatra che però Jolanda de Colò non tratta, perché presenta un gusto meno delicato rispetto a quello d’oca bensì deciso, quasi speziato. Si presenta alla vista di un colore tendente al rosa, diversamente da quello d’oca che appare giallo chiaro e più simmetrico rispetto a quello d’anatra che presenta un lobo molto più grande dell’altro.

 

Il modo migliore e semplice per gustare a pieno le caratteristiche qualitative, è far saltare in padella con del burro una fetta di fegato grasso leggermente infarinato, salando eventualmente a doratura completata. Un buon abbinamento che rende il piatto ancora più sfizioso e fresco è accompagnare il foi gras dorato con una gelatina di Verduzzo.

Spero di essere stata abbastanza esaustiva...proseguirò a breve il mio racconto sui prodotti friulani di punta: il prosciutto San Daniele, la grappa Nonino e il vino naturalmente. 

A presto, 

O.

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